libri-approfondimenti

Approfondimenti – per chi sia interessato o ne abbia necessità.

 

Fabio Ciotti, Gino Roncaglia – Il mondo digitale – Introduzione ai nuovi media – Laterza

http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788842059745

libri-adottati

Libri adottati

ATTENZIONE: DEVO AGGIORNARE ALL’A.A.  2013-14

Teoria Musicale – testo base:

Loris Azzaroni – Canone infinito: lineamenti di teoria della musica – CLUEB
http://www.libreriauniversitaria.it/canone-infinito-lineamenti-teoria-musica/

 

Informatica di Base – “Imparare facendo” -  tecniche necessarie:

Ettore Bordieri, Giuliano Ciarambino, Roberto Dicorato, Alessandro Sala
Multimedia per il programma ECDL – Audio, Video, Publishing  – McGraw-Hill

http://www.informatica.mcgraw-hill.it/catLibro.asp?item_id=2739

 

Scritture:

Luisa Carrada  – Il mestiere di scrivere – Apogeo
http://www.mestierediscrivere.com/index.php/indice_libro/

 

 Informatica Umanistica – Fondamenti:

Fabio Brivio – l’Umanista Informatico – Apogeo
http://www.apogeonline.com/libri/9788850311002/scheda

 

Cercare in Rete:

Fabio Brivio – Trovare su Internet – Apogeo
http://www.apogeonline.com/libri/9788850330287/scheda

 

Organizzare l’Informazione:

Luca Rosati – Architettura dell’informazione – Apogeo
http://www.apogeonline.com/libri/9788850326686/scheda

 

Diritto d’autore e contemporaneità ineludibile:

Simone Aliprandi – Apriti standard! – Ledizioni
http://www.aliprandi.org/apriti-standard/
(disponibile anche in formato eBook)

per il resto sto ancora decidendo e valutando testi nelle tematiche oggetto del mio Corso…

 

 

link-rilevanti-web

http://www.italianalistapart.com/

“La vita di questo web: idee emergenti, topic di riflessione, opinioni e provocazioni. Aspetti legali e sociali della creazione e della pubblicazione sul web. Innovazioni ed abusi, libertà e restrizioni. Brevetti e copyright. Trends versus punti di rottura. Tutte le cose incasinate che succedono al di fuori dei vostri progetti”

Informatica Umanistico-Musicale

di cosa stiamo parlando

schema-IUM

 

Una definizione univoca, precisa ed esaustiva di Informatica Umanistica non può esistere – se non in una forma molto semplice e generale, come nella Wikipedia – http://it.wikipedia.org/wiki/Informatica_umanistica:

“L’Informatica umanistica, in inglese Humanities Computing o Digital Humanities, è un campo di studi, ricerca, insegnamento che nasce dall’unione di discipline umanistiche e informatiche. Comprende ricerca, analisi e divulgazione della conoscenza attraverso i media informatici. Oltre ad avere una solida formazione umanistica, chi studia Informatica Umanistica sa trattare contenuti culturali con gli strumenti informatici appropriati.

Data la caratteristica di interdisciplinarità dell’informatica umanistica, fra gli esperti del settore sono compresi ricercatori e docenti delle discipline umanistiche (storia, filosofia, linguistica, letteratura, arte) e di linguistica computazionale, specialisti e studiosi di editoria elettronica, produzione multimediale, grafica e analisi di dati.

L’obiettivo di molti ricercatori nell’informatica umanistica è quello di integrare la tecnologia nelle proprie attività didattiche”.

Semplicemente perché può avere infinite ‘declinazioni’ – tante sono le discipline nelle quali può essere implementata. E’ una ‘disciplina’ in progress – è un fantastico e utile campo di Ricerca.

E’ consolidata, negli ambienti universitari. Lo studente del Conservatorio è escluso da questo, mentre sarebbe utile come una materia ‘trasversale’ al pari di Teoria e solfeggio, Teoria e analisi, Storia della musica, terreni elettivi di applicazione ed esercitazione. Utilizzo consapevole della Tecnologia, anche per autopromuoversi.

Vi è inoltre oggi qualcosa che spesso è in grado di offrire posti di lavoro: si tratta delle cosidette “doppie competenze” – terreno che il Conservatorio dovrebbe coltivare.

Informatici che conoscono la Musica – e Musicisti che conoscono l’Informatica rappresentano un settore che il Conservatorio di Milano sarebbe particolarmente adatto a produrre, in virtù anche della Convenzione stipulata con UniMi, ma rimasta ‘lettera morta’.

I Conservatori sono “organismi” del tutto inadatti a vivere nel mondo d’oggi: qualsiasi organismo che non si trasforma è destinato a perire. I Conservatori stanno “regalando” una infinità di Corsi che potrebbero tenere al meglio, a ‘entità private’. Questa è una opportunità per iniziare ad ‘aprirsi’.

Informatica Umanistico-Musicale – nelle mie intenzioni

COSA E’

Qualcosa di ‘vivo’ e ‘in progress’ – nulla di noisamente ‘akkademico’ – agile ed elastico, adattabile anche alle singole esigenze dello studente.
In Conservatorio c’è tutto da sperimentare, e ‘muffa’ da levare…

Qualcosa che possa ‘aprire la testa’ agli studenti – metodo – secondo Morin: “Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”.

La ricerca e la validazione di “materiali” forniti dalla Rete, il loro consapevole utilizzo a diversi fini, dallo studio, alla redazione di Tesi.

E’ un corso nel quale si impara anche a “scrivere” in italiano, in relazione al fine e/o al mezzo utilizzato (da una Tesina a un Blog) anche a fini di Comunicazione.

E’ un corso nel quale si apprende cosa sia il concetto di ‘convergenza’ digitale, come abbia cambiato le nostre vite, cosa abbia reso possibile, e ad utilizzarlo consapevolmente.

Il territorio di esercitazione ideale è per il Conservatorio la Teoria e analisi Musicale e la Storia della Musica, con la Musicologia.

E’ un laboratorio nel quale si “impara facendo” – Laboratorio – anche mediante la realizzazione di Tesine e Tesi – sotto il mio “tutoraggio”.

E’ un terreno fecondissimo di contaminazioni e ricerca: basti pensare la realizzazione di Tesine “incrociando” le Neuroscienze e la Percezione Musicale, con realizzazioni ‘Multimediali’…

COSA NON E’

Non è un corso di ‘alfabetizzazione informatica’- servirebbe un corso apposito.

Non si occupa di archivi e digitalizzazione di archivi – servirebbe un corso apposito – magari nell’ambito della Convenzione con UniMI

Non si occupa di linguaggi di programmazione (se non per qualche bussola orientativa storico-culturale) – servirebbe un corso apposito – magari nell’ambito della Convenzione con UniMI.

Ho ipotizzato la Materia, acronimo, IUM in un Anno Sabbatico – 2006 – come intersezione-sovrapposizione tra la Informatica Umanistica e quella Musicale – qualcosa di pensato per le necessità del Conservatorio di oggi – la cui sintesi dalla Relazione completa si trova qui:

http://www.initlabor.net/cantiere/jmp-ium.html

Un estratto ‘adattato’ dalla pagina in Rete:

Approntare scenari:

Il livello di conoscenze [musicali, per non dire di informatica di base] negli alunni del Conservatorio appare “non eccelso”, con rare eccezioni: in genere non sono in grado di ‘cercare’ [neppure in biblioteca], ‘valutare’ le fonti e poi realizzare una ricerca-tesina nei modi necessari oggi. Cosa non solo utile ma anche necessaria anche ai fini della attività lavorativa. Il livello di Cultura musicale è desolatamente basso: NON ascoltano musica, né in privato né in Conservatorio [oppure usano auricolari ed MP3]; per cui urgerebbe un lavoro organico mediante ascolti, nell’istituzione, in primis delle composizioni analizzate, con raffronti tra diverse interpretazioni relate al contenuto musicale individuato, [anche - forse soprattutto] all’interno della mia materia.

Un punto fondamentale oggi, in evidente dipendenza dalle possibilità tecnologiche e dalla sterminata massa di informazione disponibile, è organizzare la Conoscenza, assieme all’apprendere strumenti di studio e di ricerca [più Metodo che Merito] che confluiscano operativamente [anche nelle modalità degli esami] in capacità espressivo-comunicative adeguate utilizzabili nel contesto della futura vita lavorativa.

Il tutto supportato da un Laboratorio: sapere-fare-saper fare [Luca Toschi]

Cantiere:

• Organizzare la Conoscenza [quale 'ipertestualità' ? concetto e storia della medesima].
• Scrittura testuale [realizzazione Tesine-Tesi-Ricerche]
• Realizzazione di Tesi e Tesine multimediali.
• Strumenti per la condivisione [CmapTool - Wiki - Mailing list]
• Strumenti di ricerca [motori di ricerca - risorse in Rete - Biblioteconomia]
• Ricerca della musica – MIR [Music Information Retrieval
• Strumenti di consapevolezza [validazione risorse]
• Strumenti di espressione [come si scrive - come si comunica - basi del web]
• Strumenti di produzione [applicativi e integrazione dei medesimi]
• Strumenti per la ‘Rappresentazione della Conoscenza’
• Strumenti per la classificazione della Conoscenza – AI – Architettura dell’informazione
• Strumenti per lo studio
• Editing audio e video livello basico.
• E’ anche un Laboratorio.
• E’ anche ‘Tutoraggio tesi’.
E’ soprattutto un Work in Progress…


Lasciamo parlare gli studenti:

questo ‘Manifesto’ (detto ‘dei Triennalisti americani’) è segnalato da importanti siti italiani dedicati alla Materia – qui l’originale:

Da http://humanistica.ualberta.ca/who-we-are/bloomsburg-u-undergraduate-manifesto-on-digital-humanities/

Il manifesto

Siamo un gruppo di quattordici studenti laureati alla Bloomsburg University of Pennsylvania, iscritti ad un corso avanzato – introduzione all’umanistica digitale.
Come nostro esame finale, in accordo coi temi che abbiamo studiato, siamo stati ispirati – e fortunatamente incoraggiati e autorizzati – a stilare la bozza di un manifesto, per il progetto 4Humanities.

L’UMANISTICA DIGITALE CI HA CAMBIATO

Noi crediamo che insegnare l’umanistica digitale nei corsi di laurea inferiori sia veramente importante. I laureati delle università di oggi fanno parte di una unica, nuova generazione. Tutti i giorni siamo immersi in questo nuovo clima, circondati dalla digitalizzazione del mondo, e tuttora la maggior parte degli studenti probabilmente sa molto poco degli studi attuali dell’umanistica digitale.

Sta venendo fatto così poco per integrare la tecnologia nelle nuove pratiche pedagogiche. Insegnare l’umanistica digitale agli studenti universitari può portare grandi benefici poiché dà una visione non solo sulle scienze umanistiche ma anche sul modo in cui la tecnologia ha cambiato il nostro mondo e sulla maniera in cui noi possiamo cambiare con lui. Sebbene non necessariamente che lo studio dell’umanistica digitale trasformerà gli studenti in eruditi studiosi, lo stesso potrà spronarli a rendere il loro lavoro un po’ più proficuo.

Lo studio umanistico è una forma d’arte, e se questo non è trasmesso alla prossimo generazione, utilizzando i nuovi strumenti cui ci siamo abituati e che possono essere usati facilmente, questa forma d’arte andrà perduta.

Come una delle poche classi di umanistica digitale dei corsi di laurea, noi riteniamo che tutti gli studenti necessito di avere la possibilità di fare questa esperienza e di mostrare alla comunità degli umanisti digitali il contributo che possiamo apportare. L’insegnamento dell’umanistica digitale agli studenti apre un mondo di innovazione che migliorerà gli studi umanistici.

(Traduzione italiana a cura di  Alberto Beretta)

 

Manifesto delle Digital Humanities

http://tcp.hypotheses.org/482

26 mars 2011 – (Marin Dacos)

Contesto

Noi, attori o osservatori delle Digital Humanities, ci siamo riuniti a Parigi in occasione del THATCamp dal 18 al 19 maggio 2010.
Nel corso di queste due giornate abbiamo discusso, dibattuto, riflettuto insieme su ciò che sono le Digital Humanities (Umanistica Digitale) e abbiamo tentato d’immaginare e d’inventare quello che potrebbero diventare in futuro. A conclusione di queste due giornate, che rappresentano solo una delle prime tappe di un percorso, proponiamo alle comunità di ricerca e a tutti coloro che partecipano alla creazione, alla pubblicazione, alla valorizzazione o alla conservazione dei saperi un manifesto delle Digital Humanities.

I. Definizione

1. La svolta digitale della società esplora e modifica le condizioni di produzione e di diffusione dei saperi.

2. Secondo noi, le Digital Humanities riguardano l’insieme delle Scienze umane e sociali, delle Arti e delle Lettere. Le Digital Humanities non fannotabula rasa del passato.
Si appoggiano, al contrario, sull’insieme dei paradigmi, dei saperi e delle conoscenze proprie di queste discipline, mobilitando gli strumenti e le prospettive peculiari del digitale.

3. Le Digital Humanities designano una “interdisciplina” che include metodi, dispositivi e prospettive euristiche legate al digitale nel campo delle Scienze umane e sociali.

II. Situazione

4. Constatiamo:
- che da mezzo secolo a questa parte si sono moltiplicate le sperimentazioni digitali nel campo delle Scienze umane e sociali digitali;
- che, negli ultimi tempi, sono apparsi dei centri di Digital Humanities, che sono tutti, attualmente, dei prototipi o dei luoghi d’applicazione specifica di un approccio metodologico delle Digital Humanities;
- che il digitale induce delle esigenze tecniche più forti e perciò delle implicazioni economiche per la ricerca; che questi vincoli sono un’opportunità per fare evolvere il lavoro collettivo;
- che esiste un certo numero di metodi sperimentati, ma che essi non sono conosciuti e condivisi allo stesso modo da tutti;
- che esistono diverse comunità particolari nate dall’interesse per pratiche, strumenti o oggetti trasversali (codifica delle fonti testuali, sistemi d’informazione geografica, lessicometria, digitalizzazione del patrimonio culturale, scientifico e tecnico, cartografia del web, ispezione dei dati, 3D, archivi orali, arti e letterature digitali e ipermediatiche, etc.) e che queste comunità stanno formando il campo delle Digital Humanities.

III. Dichiarazione
5. Noi, attori delle Digital Humanities, costituiamo una comunità di pratica ad accesso libero, che agisce in modo solidale, aperto e accogliente.
6. Siamo una comunità senza confini. Siamo una comunità multilingue e multidisciplinare.
7. Abbiamo come obiettivo il progresso della conoscenza, il rafforzamento della qualità della ricerca nelle nostre discipline, e l’arricchimento del sapere e del patrimonio collettivo, anche al di là della sfera accademica.
8. Invochiamo l’integrazione della cultura digitale nella definizione della cultura generale del XXI secolo.

IV. Orientamenti
9. Lanciamo un appello per il libero accesso ai dati e ai metadati. Questi ultimi devono essere documentati e interoperabili sia tecnicamente che concettualmente.
10. Siamo favorevoli alla diffusione, alla circolazione e al libero arricchimento dei metodi, del codice, dei formati e dei risultati della ricerca.
11. Facciamo appello per l’inserimento della formazione in Digital Humanities nell’ambito delle Scienze umane e sociali, nelle Arti e nelle Lettere.
Invochiamo allo stesso tempo la nascita di titoli accademici specifici per le Digital Humanities e lo sviluppo di formazioni professionali ad essi dedicate.
Auspichiamo, infine, che queste competenze siano prese in considerazione nel reclutamento professionale e nell’evoluzione delle carriere.
12. Ci impegniamo a costruire un vocabolario comune e una competenza collettiva grazie alla collaborazione di tutti gli attori. Tale competenza collettiva aspira a diventare un bene comune. Costituisce un’opportunità scientifica, ma anche un’opportunità d’inserimento professionale, in tutti i settori.
13. Ci auguriamo di partecipare alla definizione e alla diffusione di buone pratiche scaturite dal dibattito e dal consenso delle comunità coinvolte; tali pratiche corrispondono a dei bisogni disciplinari e interdisciplinari riconosciuti e devono poter evolvere. L’apertura fondamentale delle Digital Humanitiesassicura un approccio pragmatico di protocolli e di visioni, che mantengono il diritto alla coesistenza di metodi diversi e concorrenti per favorire l’arricchimento della riflessione e delle pratiche.
14. Facciamo appello alla costruzione di ciberinfrastrutture evolutive che rispondano a bisogni reali.
Queste ciberinfrastrutture si costruiranno in modo iterativo e saranno basate sull’identificazione di metodi ed approcci sperimentati ed approvati dalle comunità di ricerca.

(Traduzione a cura di  Daniela Seidita)
Pubblicato in : THATCamp Paris 2010, Digital humanities, Manifeste des Digital humanities

Joanne Maria Pini – Di cosa stiamo parlando – aprile 2012

Visione

Visione

Riporto – provvisorimente – la VISIONE dal vecchio sito – via via la integrerò con quanto riguarda la specifica Informatica Umanistico-Musicale.

Non cominceremo dal particolare (come normalmente usano i musicisti per loro formazione); al contrario, cominceremo dagli aspetti generali e casomai avvicineremo in seguito i dettagli.La musica è l’unica disciplina in cui non è stato finora adottato alcun metodo globale per l’apprendimento. Ciò basta a spiegare l’isolamento e lo sradicamento culturale dei musicisti e del loro ambiente.L’insegnamento della musica procede per somma di nozioni elementari e per somma di materie scolastiche non integrate fra loro.Di conseguenza, la tecnica dei musicisti si limita alla conoscenza della grammatica musicale, ed è il livello più alto che essi possano raggiungere.
Un livello comunque troppo lontano da qualsiasi problema costruttivo e di significato.Ecco perché, nell’accostarci alla musica, siamo tutti assetati di sintassi e di idee, cose dalle quali i musicisti si astengono per secolare condizionamento.Oggi sappiamo che la nostra percezione procede dal generale al particolare. E’ dunque indispensabile che anche l’analisi musicale risulti coerente col funzionamento della mente umana.Non si tratta qui di istituire forzosi parallelismi: il fatto è che dalla somma dei particolari non si arriverà mai alla visione d’insieme.D’altronde la visione d’insieme non può mancare. La sua assenza toglie significato a qualsiasi attività umana.
Anzi dobbiamo dire: la cultura stessa nasce dalla facoltà di generalizzare.

da  Salvatore Sciarrino – Le figure della musica.

Filosofia del sito

23 aprile 2006

Prima della didattica viene la genetica.
Prima della didattica viene la pedagogia.
La pedagogia deve infondere Eros.
La pedagogia ‘occidentale’ ha fallito perché si rivolge fondamentalmente all’esterno e non all’interno, non insegna a ‘Conoscere se stessi’.
Prima della ‘professionalità’ viene l’Identità, connessa alla Maestria.
Non si può studiare senza sudore e senza amore.
La tradizione della Bottega rinascimentale, cui si è sempre attenuto il Conservatorio, è il modello perfetto per il nostro genere di studi.
La Musica deve coinvolgere Cuore-Corpo-Cervello, o non è Musica [vedi Armonia celeste e dodecafonia - di Andrea Frova].
Come un alunno può scegliersi i suoi insegnanti, così un  insegnante dovrebbe potersi scegliere i suoi alunni. Ma questo è un sogno.

***

La tecnologia, lasciata a sé sola, produce più problemi che benefici.
La tecnologia informatica contiene ‘lati oscuri’ che bisogna conoscere ed affrontare.
La tecnologia, per essere integrata in una materia ‘umanistica’; necessita di bussole salde e di molte valutazioni.
La ‘ragione’, da sola, genera quei mostri che sono sotto gli occhi di tutti.
Il pensiero che discende dalla Tradizione è Uno, Universale ed Eterno, e non fa distinzione tra Occidente e Oriente.
Il pensiero nato in Occidente come in Oriente (da Platone a Sun Tzu, dai pre-socratici a Confucio e Lao Tse) attorno al 500 a.c. è tuttora insuperato, per cui non si scopre MAI nulla di nuovo.
“Le novità si ottengono arrangiando in maniera inedita le cose del passato ” Jacques Monod

***

“Sempre la pratica dev’esser edificata sopra la bona teorica”

“Quelli che s’innamoran di pratica senza scienzia
son come ‘l nocchier ch’entra in navilio sanza timone o bussola,
che mai ha certezza dove si vada”
Leonardo da Vinci

***

Jaques Chailley – Incipit di “Eléments de philologie musicale:

“Mes élèves n’ont pas besoin d’étudier le langage du passé.
Maintenant qu’ils écrivent atonal, le reste ne les interesse plus”
[Un professeur officiel de compositiion à l'auteur de ce traité].
“Vous avez jus’à 25 ans pour assimiler ce que vos ainés ont mis 10.000 ans à trouver, et le reste de votre vie pour y ajouter votre apport personnel,
si jamais vous y parvenez”
A ceux qui se reconnaitrent dans la premère citation, ce livre est fortemente déconseillé. A tous ceux qui, comme l’auteur, ont confiance dans la seconde, il est très cordialmente dédié.

A questi secondi io dedico questo sito.

Senza dimenticare che:

Sosteniamo che la bellezza di un’opera d’arte resterà sempre misteriosa, che cioé non si potrà mai verificare esattamente “come (essa) sia fatta”.
Riserviamo, a tutti i costi, questa magia particolare alla musica.
Per sua essenza essa è più suscettibile a contenerne più d’ogni altra arte.
Debussy – 1913

***

Joanne Maria Pini -  Filosofia del sito – Visione – novembre 2006.

Mappa del sito

 

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[ci sarà quando il 'codice' sarà definitivo...]

per ora utilizzate la home – cliccando sul logo-testata

 

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IL SILENZIO

Eremo di Camaldoli

 

Con questo scritto Andrea, laureando in filosofia, introduce il lavoro di classe sul silenzio.

Premessa

Non appena ci si accinge a riflettere sul silenzio e si tenta di darne una definizione, risulta chiara la complessità e l’importanza di questo concetto. Dall’antichità ad oggi esso è stato oggetto di speculazioni filosofiche e teologiche, nonché di richiami poetico-letterari. Questo grande interesse testimonia l’essenziale legame esistente tra il silenzio e il mondo, l’uomo, il linguaggio, l’arte.

Vista l’immensità del campo di indagine, abbiamo individuato quattro punti tematici in cui ordinare le considerazioni sul silenzio: silenzio e uomo, silenzio e linguaggio, silenzio e divino, silenzio e arte. Questo dovrebbe servire a fornire un quadro generale, prima di passare a un’analisi più particolareggiata del rapporto che intercorre tra il silenzio e la musica.

Il silenzio e l’uomo

“Il silenzio appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo”(Max Picard, Il mondo del silenzio).

Il silenzio ha per l’uomo una moltitudine di valenze. E’ innanzitutto una dimensione in cui cercar rifugio dalla realtà esterna. Il silenzio aiuta a pensare, a concentrarsi, a ritrovare sé stessi e ad ascoltarsi. In esso l’uomo genera idee con la tranquillità dovuta ad una temporalità nuova: tutto è più lento e dilatato.

Inoltre, attraverso il silenzio, l’uomo può manifestare rispetto nei confronti di una realtà superiore (di cui per natura aspira invano alla conoscenza), e accettazione della propria limitatezza. Questo atteggiamento traspare in diversi momenti della storia del pensiero.

Gli scettici greci, nell’incapacità di dare delle risposte alle grandi questioni metafisiche, propongono l’epoché, la sospensione del giudizio (e quindi il silenzio) pur non rinunciando alla continuazione della ricerca. In questo modo danno inizio a un filo rosso che toccherà filosofi di varie epoche giungendo fino ai contemporanei.

Il filosofo austriaco L. Wittgenstein chiude il suo “Tractatus logico-philosophicus” con la celebre proposizione “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, facendo naturalmente riferimento anch’egli alle stesse problematiche filosofiche.

Il silenzio è poi protagonista dei momenti più importanti della vita di un uomo e come afferma G. Leopardi “è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore, dell’ira, della maraviglia, del timore”. Tra queste passioni spicca l’amore. Quando si è innamorati il silenzio acquista un valore speciale. La grande intimità tra due amanti rende le parole un qualcosa di troppo; si sviluppa una sorta di empatia per cui, in silenzio, si condivide ogni pensiero, sensazione…
B. Pascal afferma che “in amore un silenzio ha più valore di una parola”.
Il silenzio è infine intimamente legato alla morte. Chi muore entra per sempre in una dimensione di silenzio e chi assiste alla morte altrui ha bisogno di silenzio e raccoglimento.

Il silenzio e il linguaggio

Priva di rapporto col silenzio, la parola diviene vaniloquio; senza rapporto con la parola il silenzio diviene mutismo” (R. Guardini, Virtù).

Nonostante sembrino due entità contraddittorie, silenzio e linguaggio sono intimamente legate tra di loro, non fosse altro che per la constatazione che le parole poggiano sul silenzio (che è quindi sostrato del linguaggio e condizione necessaria ad ogni tipo di comunicazione).

E’ pertanto impossibile scindere queste due realtà. L’opinione comune vede erroneamente nel silenzio una condizione di passività: stare in silenzio vuol dire tacere, non comunicare. In realtà il silenzio non ha nulla a che fare con il mutismo.

Il silenzio in determinate situazioni è decisamente più ricco di contenuti che non fiumi di parole. Molto spesso persone più taciturne parlano in modo più sensato e pensato di per-sone molto loquaci. Ad una buona comunicazione, al parlare “autentico” (per usare Heidegger) sono necessari tanto il silenzio quanto il linguaggio.

Nei filosofi cristiani è radicata l’idea che ciò che è da ricercare sia il saper tacere quando è tempo di tacere e il saper parlare quando è tempo di parlare (v. S. Ambrogio, S. Gregorio, Rodriguez).

Il silenzio è tutt’altro che passivo: è indice di grande profondità, attenzione, raccoglimento, tutte condizioni necessarie al parlare, nell’accezione più seria di questa parola. Infine, il silenzio è l’unico scudo di cui dispone l’uomo a difesa di una realtà di chiacchiere vuote, inutili, sterili.

Il silenzio e il divino

“La nostra anima ha bisogno di solitudine. Nella solitudine, se l’anima  attenta, Dio si lascia vedere. La folla  chiassosa: per vedere Dio  necessario il silenzio” (Sant’Agostino, Commento al Vangelo di S. Giovanni).

Tutti i credo religiosi si trovano d’accordo nel riconoscere il silenzio come mezzo per raggiungere la sfera del divino, ascoltarne il messaggio e goderne le dolcezze. Si tratta di un silenzio interiore, che è slegato da quello delle parole. Essere in una condizione di silenzio interiore significa avere la capacità di ascoltarsi.

Nella tradizione cristiana la pratica del silenzio ha da sempre coinciso con quella della preghiera. La vita nei monasteri è scandita dalla silenziosa preghiera che permette di instaurare un dialogo con Dio. Queste strutture sono in luoghi lontani dalla realtà caotica e rumorosa e permettono una serena concentrazione.

Dio stesso per i cristiani è silenzio che, trasformandosi in parola, si dona all’umanità. Picard sottolinea come in Dio avvenga una sorta di identificazione tra parole e silenzio. Non mancano esperienze di tipo ascetico, più comuni, però, nel mondo orientale. Gli eremiti scelgono il silenzio della natura, in particolare delle montagne, per meditare e ricer-care armonia tra sé, il mondo, e il divino.

Il silenzio e l’arte

La vera musica  quella che crea il silenzio, come la vera poesia, come qualunque forma di linguaggio creatore” (M. F. Sciacca).

L’arte è creazione, comunicazione. Ancora una volta sembrerebbe un controsenso associare alla creatività artistica un concetto come quello di silenzio, ma non è così. L’arte vive di silenzi. Il silenzio è presente nella poesia: dietro le parole scritte stanno nascosti i pensieri del poeta.

La punteggiatura contribuisce a portare il silenzio tra le parole. E il silenzio c’è mentre si legge una poesia e dopo che la si è letta, quando si riflette su di essa. Ancora più curioso è il rapporto che intercorre tra silenzio e musica, l’arte dei suoni.

La musica nasce, si sviluppa e muore nel silenzio. Il suono è come un accidente che sorge all’improvviso da un fondo silenzioso per poi spegnersi e ritornarvi. Le pause sono tracce visibili del basamento silenzioso sul quale poggia la musica: questi momenti sono altrettanto importanti di quelli coperti dai suoni in questo contribuiscono a veicolare determinati messaggi musicali.

Avviene poi a volte che gli artisti scelgano, in modo provocatorio, come forma di protesta il silenzio: o smettendo di comporre poesia, musica o dando vita ad opere d’arte destinate ad essere incomprese e pertanto finire nel silenzio.

Da tutto ciò crediamo emerga con evidenza l’importanza del silenzio e la necessità di un suo recupero nella realtà attuale, dominata dal rumore, da un frastuono (spesso anche interiore) dalle parole vuote…

R. Guardini scrive allarmato: “L’umanità di chi non tace mai, si dissolve.”

Il silenzio e il bello:
riflessioni su una possibile “Estetica del silenzio”

Il concetto di silenzio presenta, a mio giudizio, numerose affinità con l’idea di bello che traspare nel pensiero di Platone, il quale pone alcune tra le più importanti problematiche che verranno riprese nella successiva storia dell’estetica (la concezione realistico-cosmologica della bellezza, la sua lettura in connessione con il problema del bene, il suo significato ermeneutico…).

Il silenzio sembra appartenere, come il bello platonico, ad una dimensione sovrasensibile, sfuggente com’è ai vincoli della materialità. La contemplazione del bello in sé è il risultato di un lungo e faticoso processo che compie il filosofo (inteso etimologicamente come chiunque ami, aspiri al sapere) a partire dall’osservazione e dall’amore graduali per ciò che di bello si presenta alla sua sensibilità, una vera e propria scalata verso il mondo delle idee “Questo  il momento della vita, caro Socrate, o mai più altro, degno di vita per l’uomo, quando contempli la bellezza in sé”, (dal discorso di Diotima a Socrate nel “Simposio”, 211d).

Ritengo che per vivere pienamente il silenzio sia necessario all’uomo uno sforzo analogo a quello descritto da Platone a proposito della bellezza: solo chi si abitua ad un attento ascolto dei suoni, dei rumori riuscirà a riconoscere e ad amare ciò che di bello c’è in questi, arrivando infine a godere pienamente del silenzio. Quest’ultimo non è altro che la sublimazione dei suoni percepibili sensibilmente.

Sperando di non forzare il testo di Platone, mi piace immaginare un sottofondo di silenzio nel momento in cui il filosofo raggiunge finalmente il mondo delle idee:

All’improvviso gli si rivelerà una bellezza meravigliosa per sua natura: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce né diminuisce, che non  bella per un verso e brutta per l’altro, né ora s“ e ora no; né bella o brutta secondo certi rapporti; né bella qui e brutta lì (…). Questa bellezza gli si rivela come essa  per sé e con sé, eternamente univoca, mentre tutte le altre bellezze partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non s’arricchisce né scema, ma rimane intoccata” (“Simposio”, 210e-211b).

Prendendo spunto dall’ultimo periodo del passo citato propongo un parallelismo tra il rapporto intercorrente tra il Bello e le cose belle e quello esistente tra il Silenzio e i suoni. A mio parere i suoni “partecipano” del Silenzio allo stesso modo in cui le cose belle “partecipano” del Bello. Il Silenzio è fondamento ontologico dei suoni che da esso nascono e in esso ritornano morendo senza corromperne l’esistenza che rimane eterna, univoca; è una sorta di idea di Suono, Suono in sé.

Il Silenzio ha in potenza tutti i suoni che noi percepiamo. Il Silenzio viene così ad assume-re caratteri propri della Idea suprema secondo Platone, l’idea del Bene, intimamente legata a quella del Bello (nel mondo greco c’è un fortissimo legame tra il bello e il buono tanto che ciò che è bello è buono e ciò che è buono è bello – Kalos kai agathos), presente in molti dialoghi.

In particolare nel VI libro della “Repubblica” troviamo la suggestiva metafora del sole: come il sole è ciò che dà vita e visibilità alle realtà materiali, l’idea del Bene è ciò che impartisce l’essere e la conoscibilità agli oggetti ideali. Tornando al Silenzio, quest’ultimo è fonte dei suoni e garante della loro esistenza: “illuminandoli” li rende udibili.

Il Silenzio è dotato di una immensa potenza creatrice. All’uomo non resta che affrontare una sfida ermeneutica, d’interpretazione di ciò che gli si presenta attraverso i sensi . Solamente partendo dai sensi riuscirà a prendere lo slancio verso ciò cui essi rimandano, verso la realtà extra-sensibile. Credo davvero che solo chi sa contemplare il bello, ascoltare il silenzio realizzi a meglio le facoltà umane di percezione della realtà.

Fine del senso del bello e mancanza di silenzio
nella società contemporanea

Il quadro delineato poco sopra come modello positivo, quello cioè di uomini proiettati nella ricerca del bello e del silenzio, non corrisponde affatto alla realtà dei nostri giorni. E’ evidente come gli uomini d’oggi (naturalmente non parlo di tutti, ma credo di un grande numero) abbiano perso la capacità e la spinta a riconoscere intorno a sé quanto c’è di bello e a crearsi autentici momenti di silenzio.

Sin dall’antichità la bellezza ha coinciso con lo stupore, la meraviglia propri di coloro che ne entravano in contatto. E a scatenare questo stupore erano le cose più diverse: un evento causato dalla natura, un paesaggio, l’espressione di un volto, una parola…

Anche le cose apparentemente più banali, se guardate “con occhi nuovi” erano occasione di meraviglia, non lasciavano spazio che a un sorridente silenzio. Da qui è nata la volontà dell’uomo di scoprire ciò che lo circondava, di capire il perché del mondo (la stessa filosofia avrebbe origine, secondo diversi pensatori contemporanei, dallo Thaumhàzein, dal meravigliarsi degli antichi), di ricreare la bellezza del mondo attraverso l’arte…
Mi sembra che oggi ci sia molta meno attenzione verso ciò che ci circonda, che ci accade.

La bellezza è ridotta a banali modelli cui omologarsi per non sentirsi diversi, la gente ricerca il silenzio interiore in strane pratiche orientaleggianti, scopre nuove culture (?) vuote e tristi (“New Age” ecc.), è schiava della routine quotidiana.

Forse basterebbe ritornare a ritmi più umani, alzare lo sguardo mentre si cammina per strada, ascoltare voci e suoni per capire che non è così difficile ritrovare il piacere di scoprire, di inventare…

Trovo eccellente questo passo tratto da “Come si vince a Waterloo” di Sciacca:

La nostra epoca rumorosa  senza silenzi, senza armonie. Povera di parole, ricca di voci. Mancano gli spazi di meditazione e di raccoglimento. Viviamo dispersi nella dispersione di mille cose inessenziali. Ci vince la stanchezza, alla fine di un giorno qualunque, non ci attrae il silenzio. Decine di appuntamenti al giorno, puntuali a tutti, siamo incapaci di un minuto di silenzioso raccoglimento e arriviamo sempre in ritardo all’appuntamento con noi stessi”.

Il silenzio “minacciato”:
la musica nella modernità

La musica, contrariamente alle altre arti, appare del tutto indipendente dal mondo delle “cose”, della materia e quindi dal contesto del mondo stesso. Schopenhauer sostiene la tesi (ripresa di continuo nelle riflessioni filosofiche riguardo alla musica) secondo cui i suoni potrebbero “in certo modo continuare ad esistere anche quando il mondo non ci fosse” (“Mondo come volontà e rappresentazione”, par. 52).

Viene spontaneo, a questo punto, domandarsi in che modo sia possibile (sempre che sia possibile) godere pienamente di quest’arte metafisica. Piana, nella sua “Filosofia della musica” afferma che “è necessario restituire al suono la sua pura essenza fantomatica sciogliendolo dai vincoli che lo integrano nel contesto del reale”.

Semplificando, si potrebbe dire che, soltanto dimenticando che il mondo c’è, si può ascoltare (non sentire) la musica. Emblematico è l’atto di chiudere gli occhi compiuto da chi vuole concentrarsi su ciò che sta ascoltando (secondo il Piana questo è “un modo di simbolizzare la necessità dell’oblio”).

Questa situazione richiama alla mente il racconto mitico secondo cui Pitagora insegnava ai suoi discepoli nascosto da una tenda e, in generale la concezione greca che attribuiva sacralità all’atto dell’ascolto (come, d’altronde, ad ogni altra esperienza estetica).

Al giorno d’oggi la musica (ma il discorso potrebbe essere allargato a tutte le altre arti) è svuotata del suo valore sacro, cultuale tanto da rappresentare sempre più spesso una minaccia al silenzio e all’interiorità. Benjamin, nel suo saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” propone alcune interessanti riflessioni riguardo al fenomeno della “perdita dell’aurea” che caratterizza l’arte del XX secolo.

La possibilità di riprodurre un’opera d’arte determina la perdita del suo “hic et nunc ”, della sua unicità e sacralità. La musica è presente sempre e ovunque nella vita dell’uomo.
Non si sceglie più di ascoltare musica, ma si è costretti a farlo

Non è un’esagerazione parlare di un vero e proprio inquinamento musicale. Accade che la musica, la più metafisica delle arti, si ritrova tristemente ad essere merce destinata all’abuso di radio, televisione…

E’ impresa più che ardua trovare un luogo dove i nostri orecchi non siano offesi dall’irrompere di un suono o di un rumore indesiderati. Gli uomini subiscono passivamente questa situazione, ormai abituati a un atteggiamento consumistico dell’arte.

Occorrerebbe imparare di nuovo ad ascoltare “con cognizione di causa e con consapevolezza musicale” (E. Lichtenhahn).


Bibliografia

M. Baldini, “Le parole del silenzio”, Edizioni Paoline, 1986
L. Wittgenstein, “Tractatus logico.philosophicus”, Einaudi, Torino, 1989
M. Picard, “Il mondo del silenzio”, Edizioni Comunità, Milano 1951
Platone, “Simposio” (tr. it. G. Calogero), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2004
W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (tr. it. Di E. Filippini), Einaudi, Torino, 2000
G. Piana, “Filosofia della musica”, Guerini e associati, Milano, 1991
R. Guardini, “Virtù”, Morcelliana, Brescia, 1978
Sant’Agostino, “Commento al Vangelo di Giovanni”, Città Nuova, Roma, 1968
M. F. Sciacca, “Come si vince a Waterloo”, Marzorati, Milano, 1961

Sitografia ragionata

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Andrea Bonino  – lavoro di classe – a.a. 2004-05

L’ESECUZIONE DI UN BRANO MUSICALE: interpretazione o lettura?

di Carlo Levi Minzi

Carlo Levi Minzi

Abstract
Nella mia esperienza di studente prima e di insegnante poi ho notato la carenza di una istruzione sistematica sulle modalità di approccio a un testo musicale. Pensando a quanto sia cruciale per l’autonomia del giovane musicista l’essere in grado di affrontare una partitura con spirito indipendente e critico mi sono spesso domandato la ragione di tale mancanza e ho finito con l’attribuirla da una parte a una concezione idealistica dell’arte, ancora molto forte in Italia, e non solo, e dall’altra al poco nobile tentativo dei docenti, specie quelli più “importanti”, di rendersi indispensabili ben oltre ogni ragionevole limite. Per questo motivo ho ritenuto utile stendere queste brevi note.

Etica dell’esecutore

Ho sempre nutrito una certa qual diffidenza per la parola “interpretazione”, perché mi ricorda molto le metodologie con cui gli antichi aruspici osservavano il volo degli uccelli o le viscere di animali per le loro predizioni, spesso volutamente sibilline.
Sono sempre stato convinto che l’approccio a un testo musicale debba avere una solida base scientifica, sottraendo, così, il musicista alla tentazione di un arbitrio dettato da una concezione idealistica dell’arte.

Poiché penso che il dovere di un esecutore sia in primo luogo quello di rendere la composizione musicale così come l’autore la aveva concepita e ciò è già di per sé molto difficile, visto che la grafia, pur abbastanza precisa, lascia spazio a un indice di deviazione, è necessario darsi delle regole che non esiterei a definire un codice etico.

Precondizioni necessarie e non sufficienti

E’ fondamentale un forte retroterra culturale di armonia, contrappunto e analisi, nonché una buona conoscenza di base della filologia e delle varie prassi esecutive.
Il “lampo di genio” è, in realtà, il raggiungimento di una sintesi che si forma nell’inconscio e che improvvisamente emerge, frutto, anche della profonda comprensione di una educazione completa, conditio sine qua non.

Purtroppo questo in Italia, nonostante gli sforzi compiuti da alcune menti illuminate, non è realtà comune e, per quanto siano stati pubblicati alcuni testi essenziali e di altri sia in corso la traduzione, ancora non si notano progressi visibili, sia nel mondo concertistico che in quello scolastico.

Anzi, anche a livello internazionale, si nota la tendenza a un regresso di stampo idealistico che non sembra essere semplicemente la vittoria di una corrente di pensiero filosofica, bensì l’appiattimento su un malinteso senso di tradizione, molto caldeggiato da insegnanti e da organizzatori di Concorsi per ben poco nobili e facilmente intuibili motivi.

E’ fondamentale anche una elevata capacità meccanica strumentale. Questo aspetto, molto meglio curato nelle scuole russe e anche tedesche, non solo accelera il processo di apprendimento, ma anche rende possibile la realizzazione di quei desideri che si verificano in fase di lettura. Ho visto allievi rinunciare a eseguire in una determinata maniera non riuscendoci, causa limiti oggettivi. Per contro mai avranno veramente successo tentativi meramente e velleitariamente virtuosistici, ma si potrà essere definitivamente certi che di ciò si tratti solo in presenza di mani impeccabili.

Scelta delle fonti (filologia) e formazione del testo

Per formazione del testo intendo la selezione del materiale da eseguire una volta confrontate le fonti, spesso tra di loro contrastanti. Tale operazione va fatta prima di cominciare lo studio vero e proprio effettuando scelte rigorosamente filologiche, perché, ovviamente, non si potrà mai comprendere correttamente qualcosa di inesatto.

Soluzione ottimale sarebbe il possesso delle copie del manoscritto, ove esistente, e delle prime edizioni a stampa, ma mi rendo conto di quanto ciò sia praticamente impossibile, perché andrebbe a richiedere sforzi economici e costanti richieste a biblioteche non sempre ben disposte; si deve, quindi, ripiegare su quanto disponibile sul mercato.
Suggerisco, pertanto, l’adozione di una edizione cosiddetta Urtext, in tedesco testo primigenio. Si tratta di un apparato che rispetti criteri filologici, non aggiungendo, cioè, niente all’originale, che disponga di note critiche che permettano all’esecutore di valutare le scelte fatte dal revisore in caso di discrepanza tra le fonti e, nel dubbio, distingua le scelte del revisore stesso attraverso parentesi o caratteri tipografici diversi. Personalmente, non fidandomi più di nessuno dopo aver confrontato un manoscritto di Schubert con una edizione a stampa delle più gettonate, faccio lo sforzo economico e mentale di munirmi di più libri incrociando, così, il lavoro di più persone e finendo ugualmente col trovarmi spesso insoddisfatto…

Tecnica di lettura step by step

Una volta esaurita la fase di formazione del testo comincia il lavoro vero e proprio. Come prima operazione si leggerà la composizione alla lettera, sforzandosi di apprendere ogni segno così come scritto, senza trascurare, cioè, il benché minimo dettaglio che potrebbe risultare essere l’indizio chiave per la comprensione finale.

Modifiche arbitrarie di note sulla base di un presunto buon gusto non sono ormai più tollerate, mentre, invece, bisognerà prestare particolare attenzione ai fraseggi e alle dinamiche, che, ancor oggi, sono considerate erroneamente relative, anche a causa di un malinteso senso di tradizione esecutiva che i tedeschi chiamano, con una buona dose di malafede, “Praxis”, che si potrebbe tradurre in italiano “uso corrente”.

Suggerisco caldamente di non munirsi di registrazioni altrui mentre si studia, perché, inesorabilmente, l’autorevolezza del famoso concertista finirà con l’ottundere la visione, portando a ripetere inconsapevolmente gli stessi errori che, per quanto griffati, sono sempre spesso e volentieri qualcosa di ben oltre il fisiologico indice di deviazione dalla grafia. Ricordo che il mio insegnante italiano mi faceva spesso ascoltare dischi di quanto stessi studiando e, altrettanto spesso, mi rendevo conto di curiose discrasie che, proprio perché impresse sul vinile da qualcuno ben più importante di me, mi lasciavano a dir poco perplesso. Perciò, anche se il passare degli anni e l’apprendimento della storia dell’esecuzione musicale mi hanno reso un po’ più accondiscendente, insisto sull’importanza dell’autonomia più assoluta, soprattutto in questa fase di assimilazione, che è cruciale per l’ottenimento di un risultato finale convinto e convincente.

A questo punto, il musicista, se capace di ascoltare e ascoltarsi, si accorgerà di essersi già formato delle idee sul significato di alcuni segni, ma anche di non riuscire a spiegarsi la ragione di altri, o, addirittura di non comprendere il senso della composizione. Questo è il momento di non farsi prendere dal panico, andando a chiedere aiuto. Occorre, contestualmente, interrogarsi su quanto non si sia compreso e insistere nella ripetizione meccanica, come sosteneva con energia anche il compianto Norbert Brainin, già primo violino del Quartetto Amadeus e mio compagno di musica per quindici anni.
Gutta cavat lapidem, prima o poi l’arcano si svelerà, provare per credere.

Personalmente ho ottenuto risultati che a me paiono sensati e contemporaneamente strabilianti, anche se a taluni colleghi sembrano frutto di pazzia o di desiderio di novità a tutti i costi, cosa, ovviamente, non vera.

Ricordo, a tal proposito, la vicenda di due mie allieve, sorelle gemelle che formavano un eccellente duo pianistico. In una delle prime lezioni mi dissero che era loro obbiettivo “dire qualcosa di diverso dagli altri”. Sorrisi e non replicai. Tempo dopo, avendo appreso la lezione ed essendo diventate piuttosto brave, cominciarono a essere criticate per la loro bizzarra originalità. Fu così che compresero di aver raggiunto il loro scopo nella maniera più lineare e onesta.

Ovviamente non ho la pretesa di avere esaurito un argomento così complesso in queste poche righe. Nessun manuale, anche il più esaustivo, può sopperire al lavoro, al sangue, al sudore e, perché no?, a un buon lavoro didattico, a condizione che questo guidi il giovane musicista alla comprensione e all’autonomia, piuttosto che renderlo perennemente schiavo di improbabili Soloni.

Nota

Carlo Levi Minzi ha tenuto concerti nelle principali sedi concertistiche di Europa, America e Asia ed effettuato numerose registrazioni radiotelevisive e discografiche con un repertorio che comprende numerosi cicli integrali e più di cinquanta concerti per pianoforte e orchestra.
E’ Professore ordinario presso il Conservatorio di Milano ed è stato Visiting Professor presso prestigiose istituzioni europee e americane.

 

Carlo Levi Minzi – contributo originale – ottobre 2006
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